La primissima infanzia (fino ai 4 anni) l’ho passata in un paesino microscopico sperduto (Santa Cecilia), alle porte dell’Amazonia, in Bolivia. Chiamarla “campagna” sarebbe fuorviante. Era un abitato sorto intorno ad una fabbrica di alcol, che poi ha anche sfruttato le terre per altre cose. Una grande pianura con piantagioni di canna da zucchero, cotone, frutteti, allevamento di bestiame… Ho pochi ricordi di quell’epoca, so che giravo perfino tra le zampe dei cavalli in completa tranquillità. Sporcarsi non era un problema, anzi, dopo si faceva il bagnetto e con quel caldo (in media 34°C) era più che benvenuto.
La casa accoglieva una marea di gatti (erano bravissimi a cacciare i serpenti), il preferito si chiamava Tommy, era nero. Con le mie sorelle giocavamo con qualsiasi cosa ci capitasse fra le mani, eravamo poco femminili. Una volta mia nonna, in visita quando doveva nascere la terza sorella, vide me e la seconda sorella cullare una scatoletta di cartone, cantando una dolce ninna nanna. Emozionata si avvicinò per vedere bene le piccole che finalmente facevano un giochetto tenero e scoprì che nella “culla” c’era un rospo! Ecco, cose di questo genere. Anche i ragni erano stupendi.
Poi 4 anni in Italia, in periferia di Vicenza. Cambiamento drastico, radicale. Giocavamo con i sassolini del cortile, liberavamo le povere lumache che una vicina di condominio aveva imprigionato (per proteggere l’insalata), mangiavamo i gambi dei trifogli (che la stessa vicina curava con passione)…
Poi di nuovo Bolivia, questa volta a vivere in città e in periferia. Ero un maschietto, detestavo i vestitini, adoravo i pantaloni, correre, arrampicarmi, sporcarmi. A scuola le femmine dovevamo portare il grembiule e i maschi niente! Noi dovevamo fare i lavoretti di cucito, loro andavano al laboratorio di falegnameria e facevano giocattoli meravigliosi. Li ho invidiati per tantissimo tempo.
Ora mi sento molto libera e faccio le cose indipendentemente dal fatto che siano considerate maschili o femminili, pulite o sporche. Abito in campagna, ma mi manca la città.
Le mie figlie crescono molto rilassate, le lascio sporcarsi (tanto con la lavatrice non è un dramma). Alla più grande cerco di insegnare a non prendere in mano la spazzatura, e invece la lascio giocare con sassi, terra, paletti, erba, fiori… I nonni paterni, invece, hanno qualche problemino: che non tocchi i criceti, che non mangi il biscotto se è caduto sul pavimento (dentro casa!), e così via.
A Vicenza, in città, c’è un parco giochi con la sabbia, con il guardiano, con cancello, con sirena… Sì, arrivata l’ora di chiusura suona una sirena tipo bombardamento aereo e scattano le urla delle mamme, gli strilli dei piccoli, il movimento dei passeggini… Non mi sono mai preoccupata della qualità della sabbia. Forse perché mia figlia, la più grande, ormai non mette più le cose in bocca… E poi le ho sempre lasciato mettere di tutto in bocca, che si faccia gli anticorpi…
Ah!! Ecco, mi sono ricordata di una cosa importantissima: mio nonno, quando avevo 2 anni, mi offrì la sabbia pulita da mangiare. Vedendomi divorare la terra (o sabbia) del suo giardino, invece di sgridarmi prese la terra, la passò per il setaccio e me l’offrì in un piattino. Immaginatevi la mia gioia! Ecco, questo nonno è stato fondamentale per me, con lui ho imparato a segare i legni, a dipingere i muri, a sistemare tubature in bagno, a pulire la piscina, a tagliare l’erba, a raccogliere i fichi, a versare bene la birra… Quanto mi manca.